PERCHÈ L’ITALIA È TRA I PAESI PIÙ ESPOSTI AI CAMBIAMENTI CLIMATICI E DA QUANDO LO SAPPIAMO.

Nov 5, 2018 | Dalla Confeuro

Nell’area del Mediterraneo, le temperature aumentano più di quanto avviene in media nel resto del mondo. Già nel 2013 si era concluso che il rateo di crescita delle temperature in Italia fosse circa il doppio rispetto a quello globale. Guardando alle serie storiche, a oggi è stato già raggiunto un aumento intorno a 1,3 gradi rispetto al periodo compreso tra 1880 e 1920, con una sostanziale riduzione delle precipitazioni nei mesi estivi e fenomeni di tropicalizzazione del clima in quelli autunnali.
L’Italia e il bacino del Mediterraneo sono considerati dagli scienziati del clima – e non da oggi – un “hotspot”, cioè tra le aree dove l’impatto dei cambiamenti climatici sarà maggiore e potenzialmente più disastroso.
Oltre al rischio di una marcata riduzione dei ghiacciai alpini e impatti sui bacini idrografici – con un’esplosione dell’aridità e dei fenomeni di desertificazione e la metà del territorio italiano a rischio di degrado – c’è una maggiore frequenza di eventi estremi.
A rischio di degrado sono le regioni con aree sensibili superiori alla media nazionale come Basilicata, Marche, Molise, Sicilia, Sardegna, Puglia ed Emilia Romagna. Ma anche le regioni alpine, con la perdita dei ghiacciai, sono a forte rischio: dal 2003 si è avuta ovunque una forte accelerazione dei cali glaciali, che già nel 2007 interessavano il 99% delle unità osservate.
Si conti che i ghiacciai nazionali hanno superfici in gran parte inferiori a 1 km2, spessori medi di soli 20-30 m e un’esposizione più soleggiata, condizioni che li rendono particolarmente vulnerabili al climate change (è un dato assodato la scomparsa di moltissimi ghiacciai sulle Alpi Marittime, sul Monviso e sulle Dolomiti).
L’entità dei ritiri glaciali nazionali è impressionante: si spazia dai -170 m al ghiacciaio del Sissone (Alpi Retiche) nell’estate 2009, ai -105 m a quello di Goletta (Valle d’Aosta) nel 2011. Il più imponente ritiro è però a carico del ghiacciaio del Lys (Monte Rosa): dalla sua massima espansione nel 1860 (durante la “Piccola Età Glaciale”) la sua riduzione glaciale ha raggiunto oggi quasi 1.700 m.
Già nel 2012, su questo fenomeno gli esperti notavano: “L’accelerazione registrata dal 2003 in poi rende estremamente difficile l’adattamento alle nuove condizioni climatiche da parte delle specie viventi e – in prospettiva – anche per l’uomo: le conseguenze che ci aspettiamo a danno umano sono infatti l’alterazione dei regimi idrologici locali, la perdita del permafrost e il rischio di dissesto idrogeologico. I primi interessati saranno i circa 14 milioni di persone che vivono sulle Alpi, ma gli impatti saranno ovviamente a carico di tutti, vicini e lontani, spesso trasportati dai fiumi che ormai oggi sono per oltre il 90% fortemente alterati dall’azione antropica”.
Secondo gli studiosi, già allora si profilavano in aumento i rischi di inondazioni, di erosione costiera e di danni alle infrastrutture: “Il rischio già è presente con l’attuale livello di climate change (+0,61 C rispetto al periodo preindustriale) e sta aumentando progressivamente”, dissero.
Un anno prima, lo studio del 2012 “Mediterranean agriculture under climate change: adaptive capacity, adaptation, and ethics’, Regional Environmental Change” di Marco Grasso (docente di Politiche ambientali dell’Università di Milano-Bicocca) e Giuseppe Feola (University of Reading) anticipava alcune delle problematiche dei cambiamenti climatici sui sistemi agricoli del paesi dell’area mediterranea. La ricerca, infatti, evidenziò come gli impatti dei cambiamenti climatici del decennio a venire sarebbero stati rilevanti per l’area mediterranea, determinando una diminuzione della produzione agricola nell’area che include anche l’Italia meridionale.
Con l’aumento delle temperature, si registrano inoltre maggiore salinità e innalzamento del livello del Mar Mediterraneo, con effetti anche sulla circolazione tra Mediterraneo e Atlantico.
Nel Mediterraneo, per la sua modesta estensione e la caratteristica di essere un mare semi-chiuso, i cambiamenti indotti dal riscaldamento globale possono provocare risposte a livello biologico più rapide rispetto a quanto riscontrato in altri sistemi su scala globale. Il Mediterraneo, infatti, ha caratteristiche del tutto particolari: prima di tutto assomiglia più a un lago che a un mare, in quanto bacino semichiuso “alimentato” principalmente dall’Oceano Atlantico, attraverso le Stretto di Gibilterra, ma anche dal Mar Nero attraverso lo Stretto dei Dardanelli. Questo travaso di acque avviene perché l’Atlantico è più alto di 20 cm e il Mar Nero di 50 cm rispetto al Mediterraneo, il cui livello è comunque stimato in crescita nei prossimi anni per l’aumento delle temperature
Per effetto del cambiamento climatico, migliaia di ettari di territorio nazionale potrebbero essere sommersi dal mare. Secondo le proiezioni realizzate nel 2015 dai ricercatori ENEA, sono 33 le aree costiere ad alta vulnerabilità in tutta Italia che rischiano di essere inondate, come ad esempio la laguna di Venezia, il delta del Po, il golfo di Cagliari e quello di Oristano, l’area circostante il Mar Piccolo di Taranto, la foce del Tevere, Fiumicino, Fondi e altre zone dell’Agro pontino, le piane del Sele e del Volturno, la Versilia, le saline di Trapani e la piana di Catania. A luglio 2018, altre 7 aree si sono aggiunte a questa lista.
Il resto è cronaca.

Fonte: FreshPlaza