SCOPERTO ENZIMA “MANGIA PLASTICA”

Apr 19, 2018 | Dalla Confeuro

Un team di scienziati inglesi e Usa ha modificato inavvertitamente una proteina. Da lì i nuovi risultati nella lotta per lo smaltimento dei rifiuti
Un enzima artificiale che «mangia» più plastica di quelli presenti in natura e che potrà essere utilizzato per combattere uno dei peggiori problemi di inquinamento del mondo. A svilupparlo casualmente sono stati gli scienziati della Portsmouth University del Regno Unito e del National Renewable Energy Laboratory del dipartimento dell’Energia Usa. La scoperta è stata fatta esaminando la struttura di un enzima naturale trovato in un centro di riciclaggio dei rifiuti alcuni anni fa in Giappone.
I ricercatori stavano analizzando la struttura molecolare dell’enzima in grado di digerire il polietilene tereftalato, la Pet usata per le bottiglie di plastica. Durante lo studio, però, l’hanno inavvertitamente modificata e così hanno scoperto che la nuova versione della proteina, ribattezzata «Ideonella sakaiensis 201-F6», era molto più efficiente nel «mangiare» la plastica di quella esistente in natura.
«Accidentalmente è stato sviluppato un enzima ancora più performante nello scomporre la plastica Pet», si legge nella relazione pubblicata lunedì dall’American Academy of Sciences (Pnas). «La fortuna gioca spesso un ruolo importante nella ricerca scientifica di base e la nostra scoperta non fa eccezione», ha osservato John McGeehan, professore alla School of Biological Sciences di Portsmouth.
«Sebbene l’avanzamento sia modesto – ha spiegato McGeehan – questa inaspettata scoperta suggerisce che c’è ancora spazio per un ulteriore miglioramento di questi enzimi, per portarci ancora più vicini a una soluzione di riciclaggio per la montagna in continua crescita di plastica scartata».
Ogni anno più di otto milioni di tonnellate di plastica finiscono negli oceani di tutto il mondo, suscitando preoccupazioni per la tossicità del derivato del petrolio e il suo impatto sulla salute delle generazioni future e dell’ambiente. Quest’ultima scoperta potrebbe offrire una prima soluzione.

Fonte: La Stampa