I cambiamenti climatici rischiano di ridurre drasticamente le aree di produzione entro il 2050. Ma i ricercatori di Berkeley lavorano alla soluzione: modificare geneticamente la pianta per sopportare anche un clima più arido
Servono temperature, umidità e piovosità precise e costanti lungo tutto l’anno per coltivare le piante di cacao. Non è un caso dunque se la zona di produzione è estremamente ristretta: circoscritta per lo più a una sottile striscia di foresta pluviale che si allarga appena 10 gradi a nord e a sud dell’equatore. E con i cambiamenti climatici che minacciano moltissime aree del pianeta, in futuro sembra destinata a rimpicciolirsi ancora. Rischiamo di svegliarci in un mondo senza più cioccolata? Per fortuna, c’è chi è al lavoro per cercare una soluzione: sono i ricercatori dell’Università di Berkeley, che in collaborazione con un colosso dei dolciumi come la Mars stanno cercando di modificare la pianta del cacao per renderla capace di resistere anche in territori meno ottimali. Con la missione esplicita di salvare il cioccolato, costi quello che costi.
Come svela un articolo di Business Insider, a sovrintendere l’iniziativa è un’autentica star nel campo dell’ingegneria genetica: Jennifer Doudna, una delle scopritrici di Crispr, la tecnica per il taglia e cuci del Dna che promette di rivoluzionare il mondo della genetica e della biologia. Sotto la sua guida, i ricercatori dell’Innovative Genomics Institute di Berkeley stanno modificando i semi di cacao, sperando di ottenere una pianta in grado di crescere, e prosperare, anche in climi molto più secchi di quelli attuali.
Per capire il perché, basta un’occhiata alla cartina. Oggi oltre il 50% della produzione mondiale di cacao arriva da soli due stati dell’Africa occidentale: Costa d’Avorio e Gana, dove attualmente esistono ampie zone coltivabili che presentano le giuste condizioni di piovosità, temperatura, suolo, ma soprattutto di umidità. Ed è proprio questo il problema. Per crescere la pianta di cacao ha bisogno di un’umidità compresa tra il 70 e il 100%, e le previsioni dei climatologi parlano di un aumento di temperatura di oltre 2 gradi entro il 2050, che renderebbe molte parti delle due nazioni troppo secche per le piante di cacao.
In questo scenario, l’Ipcc prevede che le aree ottimali per la coltivazione si troverebbero a salire di circa 300 metri, spostandosi in zone collinari che in molti casi oggi ospitano importanti riserve naturali. Uno scenario che metterebbe le nazioni produttrici di fronte a una scelta drammatica: conservare le coltivazioni (e i cospicui introiti che generano) a danno degli ambienti e della biodiversità locale, o proteggere invece le proprie riserve naturali assestando probabilmente un colpo fatale all’industria della cioccolata.
È per questo che la Mars avrebbe deciso di muoversi per tempo, e su più fronti. Da un lato infatti l’azienda ha recentemente annunciato investimenti per oltre un miliardo di dollari in un programma denominato “Sustainability in a Generation”, che punta ad abbattere del 60% le emissioni legate alla produzione di snack e dolciumi della società entro il 2050. Dall’altro, finanziando le ricerche di Berkeley per avere a disposizione un piano B, in caso l’aumento delle temperature risultasse inarrestabile.
Dal canto loro, anche i ricercatori di Berkeley si muovono su più fronti. Nell’Innovative Genomics Institute si lavora infatti su coltivazioni di rilevanza strettamente commerciale, come è il caso del cacao. Ma anche per rendere più resistenti, economiche e produttive piante che nei decenni a venire potrebbero salvare dalla fame milioni di persone nelle aree più aride del pianeta. Un esempio è la manioca, una pianta che sfama da millenni le popolazioni di tre continenti, ma che con l’aumento delle temperatura rischia di produrre in futuro dosi troppo elevate di una tossina, che la renderebbe difficile da consumare in sicurezza. È in questi campi insomma che Crispr potrebbe dare, finalmente, i primi veri risultati concreti. E se dovesse riuscire anche a salvare il cioccolato, beh: tanto di guadagnato.
Fonte: La Repubblica