A CAUSA DI SICCITÀ, INCENDI E INQUINAMENTO LA PRODUZIONE DEL MIELE È CROLLATA A UN TERZO

Ago 3, 2017 | Dalla Confeuro

C’erano una volta le api felici. E ci sono ancora, per fortuna. Ma sempre meno. E sempre meno felici. Perché le congiunture climatico-ambientali stanno mettendo a dura prova anche le volenterosissime operaie che producono il nettare degli dei. La stagione peggiore di sempre, per il miele italiano, se è vero che il dato di produzione oscilla intorno agli ottantamila quintali, meno di un terzo della media annua. E dire che due anni fa gli apicoltori pensavano di aver toccato il fondo, con un raccolto di poco inferiore ai centocinquantamila quintali.
È la storia reiterata dei nostri tesori alimentari, in perenne bilico tra orgoglio identitario e cupio dissolvi. Siamo talmente abituati a vivere nel paese di Bengodi, che non avvertiamo l’urgenza di tutelarlo. E quando lo facciamo, si tratta quasi sempre di soluzione abborracciate, che aggiustano ma non risolvono, soprattutto dovendo affrontare le nuove emergenze.
In Italia, gli alveari sono un milione e duecentomila. L’attività di impollinazione delle colture agricole vale due miliardi di euro, una cifra difficile da trascurare. A questi, vanno aggiunti di quasi duecento milioni di euro, controvalore di cinquantuno varietà di miele, ricchezza e meraviglia che ci rende unici al mondo.
Eppure, a fronte di tanto privilegio, troppo poco si fa per supportare i 45.000 apicoltori artigianali censiti, equamente divisi tra autoconsumo e commercializzazione, a partire dalla posizione quanto meno timida di fronte alla prospettiva di rinnovare per altri dieci anni l’autorizzazione all’utilizzo del famigerato glifosato.
Il dibattito in Commissione Europea è stato riaperto due settimane fa, in attesa del voto di fine estate: il moltiplicarsi degli studi sulla tossicità dell’erbicida brevettato dalla Monsanto e il milione e trecentomila firme raccolte tra i cittadini europei rischiano di non bastare. Le associazioni “no-glifosato” premono sul governo italiano perché alzi la testa, a difesa – oltre che dei suoi cittadini – di una ricchezza agro-alimentare senza pari. Ma al momento, l’impegno è fermo a vaghe rassicurazioni.
Nelle ultime settimane, ai veleni ambientali – l’ultimo studio italo-americano riguarda il neonicotinoide Thiamethoxam, che altera il senso di orientamento delle api, condannate a morire lontano dall’alveare – si è aggiunta la siccità. Le api non trovano da mangiare perchè le fioriture sono seccate, e con esse il nettare. Tanto assetate da ridursi a bere perfino l’acqua superclorata delle piscine. E poi c’è il fuoco. I roghi che aggrediscono i boschi uccidono gli animali e inceneriscono le arnie, senza lasciare scampo agli insetti.
A mantenere una quota discreta di raccolto, i mieli prodotti in alta quota, dove la vegetazione è stata meno segnata dalla mancanza d’acqua. Così, si sono moltiplicati gli spostamenti degli apicoltori nomadi, novelli transumanti con gli alveari al seguito, verso i pascoli salvifici. Più in basso, hanno resistito i mieli di castagno e tiglio di alta collina e vallate alpine, quelli di agrumi in Sicilia e in parte di Calabria e costiera ionica. Per il resto, dalla Maremma all’Alessandrino, le produzioni sono quasi azzerate, melata compresa, visto che le piante non sono più in grado di attivare i normali meccanismi vegetali.
Il bilancio definitivo verrà stilato a inizio settembre, in occasione della “Settimana del Miele” di Montalcino, ovvero gli stati generali dell’apicoltura italiana. Se anche la frase attribuita ad Einstein sull’impossibilità di vita senza api non gli appartenesse davvero, meglio non doverne sperimentare gli effetti sulla nostra pelle.

Fonte: La Repubblica