Proteggono l’ambiente e le foreste ma subiscono violenze e minacce. Secondo un recente rapporto dal titolo Cornered by protected areas (Messi all’angolo dalle aree protette) ai popoli indigeni e alle comunità locali viene impedito di svolgere il ruolo chiave di “guardiani delle foreste“.
Nel rapporto, che ha coinvolto 28 paesi, sono stati individuati i costi dalla politica di criminalizzazione delle popolazioni locali. Secondo i calcoli della Right and Resources Initiative, popoli indigeni e comunità investono, a livello globale, più di 4 miliardi di dollari all’anno per la conservazione dell’ambiente in cui vivono, incluso un miliardo per le foreste.
Inoltre, i guardiani della foresta non solo investono nella conservazione, ma sono anche più efficienti. Secondo lo studio, infatti, ottengono risultati migliori in termini di conservazione a fronte di un investimento economico limitato.
La Right and Resources Initiative definisce invece «inadeguate» le risorse che vengono stanziate dagli stati, dalle agenzie di cooperazione, da ong, fondazioni e enti privati. Nonostante la cifra allocata a livello globale dai donatori ufficiali raggiunga i 21 miliardi di dollari, le risorse sono spesso ripartite in modo ineguale, sia a livello globale che all’interno dei singoli paesi.
A farne le spese sono soprattutto gli stati con un reddito medio o basso. Di questi soldi solo una piccolissima percentuale arriverebbe alle comunità locali.
I diritti consuetudinari indigeni, inoltre, coprono, secondo le stime della ricerca, almeno metà delle terre minacciate. Nei fatti, però, solo il 10% di questi territori è legalmente riconosciuto come indigeno.
In Perù nelle aree legalmente riconosciute la deforestazione si è ridotta dell’80 per cento. In Brasile le “community forest” che vengono gestite dalle popolazioni locali sono riuscite a conservare nel terreno il 36% in più di carbonio, evitando quindi il suo rilascio in atmosfera.
La creazione di aree protette in molti paesi diventa una scusa per escludere le popolazioni indigene e le comunità locali dall’accesso alle risorse. Si diffondono violazioni dei diritti umani e criminalizzazione. Le comunità vengono allontanate con la forza dalle loro terre ancestrali.
Gli sfratti forzati sono spesso accompagnati dall’incendio delle case e dalla distruzione dei campi coltivati. All’esclusione dalle terre si aggiungono anche minacce, molestie, arresti e uccisioni. Queste ultime sono giustificate con la necessità della conservazione. È diventato famoso su questo tema il report prodotto da BBC sulle uccisioni extragiudiziarie nel parco nazionale Kaziranga, in India. In 20 anni sarebbero state uccise 106 persone.
L’effetto della militarizzazione e dell’esclusione, come racconta la relatrice Onu, è quello di aggravare il rischio di malnutrizione, aumentare il livello di povertà e di peggiorare le condizioni di vita delle comunità.
Le popolazioni perdono l’accesso alla terra, alle fonti di sostentamento e alle piante medicinali. Gli stessi fondamenti culturali, il rapporto con gli antenati e con la natura, vengono messi in crisi dalle politiche della conservazione esclusiva, secondo il rapporto.
Il documento punta il dito contro l’idea dominante di una conservazione che esclude i popoli che abitano le aree protette. Secondo il rapporto è necessario poter monitorare in modo trasparente la gestione delle parchi naturali, in modo da segnalare violazioni dei diritti umani e violenze.
A questo si deve aggiungere un meccanismo di compensazione e risarcimento per le popolazioni indigene e le comunità locali minacciate. Il nuovo modello di conservazione deve mettere al centro i popoli indigeni, considerandoli partner strategico per la tutela dell’ambiente.
Fonte: OsservatorioDiritti