LA CASSA VUOTA DEI PARTITI

Feb 8, 2018 | Dalla Confeuro

Slogan originali, zero. Guru stranieri, non pervenuti. Cartellonistica elettorale, sporadica. Manifestazioni oceaniche, ancora sulla carta. A un mese dalle elezioni politiche più incerte degli ultimi 25 anni, la campagna elettorale langue. Non c’è da stupirsi: è la prima che si svolge nella totale assenza del finanziamento pubblico ai partiti. E si vede.
Qualsiasi formazione politica in campo, piccola o grande che sia, applica la medesima formula a costo zero: leader sempre in campo, tanta tv, presenza sul territorio e presidio dei social. Ma i soldi servono lo stesso. Ad esempio, non si può certo rinunciare a compulsare i sondaggi fino all’ultimo minuto, attività per la quale servono tra i 5 e i 10 mila euro. La pubblicità sui mega cartelloni prima o poi dovrà essere piazzata e non può costare meno di 150 mila euro per un pacchetto di affissioni significativo.
Per avere un’idea delle spese, diciamo che il Pd nel 2013 sborsò per la campagna circa 10 milioni di euro. Di più fece solo il centrodestra che, come Pdl, allora pagò circa 12 milioni. La Lega impiegò circa 2,7 milioni, mentre il debuttante M5S dichiarò solo 803 mila euro. Facile però: era tutto rimborsato.
A sentire i tesorieri dei partiti, quest’anno si dovrà abbattere la spesa di almeno due terzi. Fa sorridere perciò il tetto imposto dalla legge per cui ogni candidato non potrà impiegare più di 52 mila euro per ogni circoscrizione o collegio, più 0,01 euro per ogni residente nelle circoscrizioni o collegi in cui si presenta. Il che fa salire il tetto di spesa al massimo a 72 mila euro nei collegi plurinominali del Senato, i più estesi.
A dare una mano ai partiti esiste da sempre il contributo alla campagna elettorale richiesto al candidato. Le cifre cambiano da partito a partito e da zona a zona: per il Pd può arrivare a 40/50 mila euro, per Forza Italia si aggira sui 20 mila (e può derivare anche dalla generosità di uno sponsor privato), 15 mila per la Lega, 5 mila per Fratelli d’Italia. Di solito chi non si è mai presentato gode della possibilità di rateizzare l’esborso, mentre il parlamentare uscente deve versare tutto subito, soprattutto se il suo collegio è blindato. Il problema è che in queste elezioni di sicurezze ce ne sono davvero poche: sarà anche per questo che trovare i candidati in questa tornata è stato davvero difficile. Troppo elevata la possibilità che dalle urne non esca un responso risolutivo tale da evitare un nuovo ricorso al voto. Troppo alto il rischio di sborsare soldi che, in caso d’insuccesso, non verranno restituiti. Ma è giusto che la possibilità di candidarsi sia così tanto legata alle disponibilità economiche del singolo cittadino? Abolire il finanziamento pubblico è stata una buona idea?
“Ogni disciplina legislativa sul cosiddetto political fund raising è espressione della sottostante visione del ruolo della rappresentanza politica presente nel singolo ordinamento”. È quanto scrive il Collegio di controllo delle spese elettorali della Corte dei conti nella Relazione sui rimborsi elettorali del 2014, l’ultima, visto che i rimborsi non esistono più. Ma se il ragionamento della Corte è giusto, che tipo di visione ha guidato il legislatore che nel 2013-14 ha sottratto ai partiti il finanziamento pubblico, anche solo sotto forma di rimborsi elettorali, agganciando il loro sostentamento esclusivamente alle liberalità dell’elettore? Probabilmente un’idea in linea col nostro sentire comune, attraversato da pulsioni populistiche, in base al quale è l’elettorato a decidere a chi dare la fiducia. E l’obolo. Forse dimenticando che nel nostro Paese alcuni partiti sono potuti nascere e farsi conoscere in breve tempo grazie all’impegno economico profuso da qualcuno e/o alla popolarità già raggiunta da qualcun altro, sia pure su palcoscenici non politici.
Giova ricordare che in molta parte degli ordinamenti europei la legislazione è improntata a un sistema misto: da un lato, finanziamento pubblico, con la ratio di garantire l’uguaglianza di tutti i cittadini nella competizione politica, dall’altro, forme di finanziamento privato.
Il nostro sistema è cambiato dopo il referendum dell’aprile 1993 che abolì il finanziamento pubblico per l’attività ordinaria dei partiti ma non le leggi sui rimborsi per le spese elettorali. Norme, queste, investite da forti critiche per l’assenza di correlazione tra gli uni e le altre, e per i fatto che l’erogazione si protraeva anche in caso di scioglimento anticipato delle Camere.
Basti pensare che per le elezioni dal 1994 al 2013 lo Stato ha erogato per elezioni regionali, politiche e europee, rimborsi per complessivi due miliardi e 481 milioni. La tornata più costosa è stata quella delle politiche 2001: 476,5 milioni a fronte di spese accertate per circa 50 milioni di euro (472 nel 2006 e 419 nel 2008). L’ultima consultazione elettorale, quella politica del 2013, ha visto un ridimensionamento del fenomeno con spese dichiarate per 45,5 milioni e rimborsi quasi equivalenti.
Cifre che mancheranno totalmente nella tornata del prossimo 4 marzo, la prima in cui la riforma che abolisce anche i rimborsi, va del tutto a regime. Di pubblico ai partiti continua a affluire parzialmente e indirettamente solo il finanziamento ai gruppi politici parlamentari. Esborso per le casse dello Stato che nel 2016 è ammontato nel complesso a oltre 53 milioni di euro, circa 32 alla Camera e circa 21 al Senato.
Per il resto, il nuovo sistema si fonda sul sostegno dei privati, che possono scegliere di destinare ai partiti il due per mille dell’Irpef. Oppure fare donazioni detraibili al 26%. I contribuenti cha hanno dirottato il due per mille ai partiti nelle dichiarazioni 2017 (su redditi 2016) sono stati poco più del 8% su un totale di 40 milioni. Dei 15 milioni di euro raccolti, più della metà sono andati al Pd. A seguire, la Lega ne ha raccolto 1,8 milioni e Forza Italia 1 850 mila euro. Il Movimento 5 Stelle ha respinto questa forma di finanziamento.
Quanto alle donazioni delle dichiarazioni del 2016 l’hanno sfruttata solo 668 mila su 40 milioni (lo 0,02%) per un valore di 21,5 milioni. Anche se le forze politiche lo derivano da oltre l’80% dei propri eletti. Ancora più residuali le entrate da persone giuridiche: inferiori al milione di euro l’anno. Fa eccezione Forza Italia, che nel 2013 ha ricevuto una donazione di Silvio Berlusconi di 15 milioni di euro. Poi, essendo stato introdotto il tetto di centomila euro alle donazioni dei privati, negli anni successivi le liberalità della galassia berlusconiana sono calate, pur restando quasi la metà di quelle totali. Ma se gli atti di liberalità sono scarsi non è certo un problema di privacy, visto che i partiti devono dichiarare le donazioni superiori ai cinquemila euro insieme al bilancio ma possono omettere i nomi dei benefattori se questi non ne autorizzano la pubblicazione.
Far conto sul tesseramento è un’idea superata, come lo stesso tesseramento, che infatti langue. Quello che sembra crescere è invece il contributo apportato dalle fondazioni e dai think tank che girano intorno ai partiti. Openblog ne ha recensiti 102: nemmeno l’11% pubblica il proprio bilancio, grazie a una legislazione che lo consente. Avremo eliminato il finanziamento pubblico ai partiti ma abbiamo alimentato quello occulto. Siamo sicuri che sia meglio così?

Fonte: Il Corriere della Sera