Non ha trovato molto spazio sui mass media la notizia della pubblicazione (l’8 ottobre scorso) della Sintesi per Decisori Politici dello Special Report on Global Warming of 1,5 °C, che costituirà il riferimento scientifico per la Conferenza delle Parti (Cop24) della Convenzione quadro dell’Onu sui Cambiamenti Climatici (Unfccc).
L’aumento di temperatura dovuto all’azione antropogena sarà duraturo e non uniforme sulla Terra: in effetti durerà per secoli (per la stabilità della CO2) e continuerà a causare ulteriori cambiamenti nel sistema climatico anche a lungo termine. D’altra parte, un riscaldamento superiore alla media annuale globale viene già ora sperimentato in molte regioni della terra e in diverse stagioni, in particolare nell’Artico. Il riscaldamento è generalmente più alto sui continenti che sui mari e purtroppo si registra con più intensità in regioni terrestri molto abitate e in genere assai povere.
Agli scienziati che per conto della Nazioni Unite seguono le vicende dei cambiamenti climatici, era stata chiesta un’analisi sulle reali possibilità di contenere l’innalzamento della temperatura globale al di sotto dei 2 gradi (rispetto ai livelli preindustriali), limitando l’aumento a 1,5 °C. Le loro conclusioni sono allarmanti. Si stima che le attività umane abbiano già causato circa +1,0 °C di riscaldamento globale. Se la temperatura continuasse ad aumentare al ritmo attuale, con un andamento che dal 2000 non è ormai più lineare, è probabile che si raggiungano +1,5 °C tra il 2030 e il 2052. L’inquietudine degli scienziati si manifesta nel monito che un aumento dagli effetti irrimediabili può essere evitato solo se le emissioni globali di CO2 iniziano a diminuire ben prima del 2030, cosa del tutto improbabile.
Lo studio compara i risultati a +2 °C con quelli auspicati di mezzo grado in meno. Ad esempio, entro il 2100 la crescita media su scala globale del livello del mare sarebbe più bassa di 10 cm. Un ritmo più lento di innalzamento del livello del mare consente maggiori opportunità di adattamento nei sistemi umani ed ecologici nelle piccole isole, nelle zone costiere basse e nei delta (Venezia e Aquileia). Le barriere coralline con un aumento di 1,5, diminuirebbero del 70-90%, mentre con 2 °C se ne perderebbe praticamente la totalità (oltre il 99%) e si registrerebbe la scomparsa di un numero elevato di ecosistemi. I rischi legati al clima per i sistemi naturali e umani diventerebbero più elevati e differenti da luogo a luogo. Con dettagli e grafici, il report dimostra che il problema del cambiamento climatico ha una relazione diretta con migrazioni e povertà, mentre suggerisce vivamente politiche di transizione rapide e di vasta portata nel sistema energetico e nell’agricoltura oltre a una particolare attenzione a città, infrastrutture (incluso trasporti ed edifici) e sistemi industriali (economia ciclica).
Le transizioni di sistema che vengono richieste sono senza precedenti in termini di scala e implicano riduzioni delle emissioni in tutti i settori, un ampio portafoglio di opzioni di mitigazione e un significativo spostamento degli investimenti su opzioni ambientali.
In Italia la situazione è di stasi totale: tutto fermo nella decarbonizzazione del sistema energetico; si vive della rendita del boom del solare del 2011 (governo Berlusconi IV) e su quella scia si sono raggiunti con cinque anni di anticipo i target europei del 2020. Ma quelli stabiliti per il 2030 al momento rimangono una chimera. Lo continuano a ricordare i rapporti trimestrali dell’Enea. Il terzo del 2018 ribadisce che per il quarto anno consecutivo, la quota di Fer sui consumi finali potrebbe perfino ridursi, continuando ad oscillare intorno al 17,5% raggiunto nel 2015. Rimaniamo inchiodati a quell’anno. Secondo le elaborazioni dell’osservatorio Fer (su dati Terna) la nuova potenza eolica, fotovoltaica e idroelettrica connessa nei primi sei mesi del 2018 è stata pari a 334 MW, una variazione inferiore del 39% rispetto ai 551 MW installati nella prima metà del 2017.
Fonte: Il Fatto Quotidiano